Quarta Domenica di Quaresima (B)

GUIDA ALL'ASCOLTO 
del Communio Lutum fecit

di Fulvio Rampi 

Il contesto liturgico che avvolge questo breve communio evangelico è del tutto speciale. “Laetare Ierusalem”, rallegrati Gerusalemme: esordisce così l’introito della quarta domenica di Quaresima, detta appunto “Dominica Laetare”. Il parallelo con la terza domenica di Avvento, la “Dominica Gaudete”, è evidente. Si tratta di due feste accomunate dalla anomalia della gioia, che la liturgia colloca in modo provocatorio al centro dei tempi forti a carattere penitenziale dell’Avvento e della Quaresima. 
Questo sorprendente invito alla letizia è nei segni visibili della liturgia – che cambia eccezionalmente il colore dei paramenti del celebrante da viola a rosa – ed è anche nella veste sonora decisamente più ricca che il canto gregoriano riserva in modo particolare agli introiti delle due domeniche.
Se il testo paolino del “Gaudete” (Filippesi.4, 4-6) pregusta la gioia del Natale, il testo di Isaia del “Laetare” (60, 10-11) orienta il percorso quaresimale verso la Pasqua. 
All’esuberanza testuale e musicale dell’introito, il “proprium missae” della quarta domenica di Quaresima unisce una significativa e diretta allusione pasquale. Lo fa con una piccola formula di accento, che caratterizza le melodie-tipo dei cantici della Veglia di Pasqua: questa cellula melodica, già incontrata nell’introito “Invocabit me” (sull’accento del verbo “glorificàbo”) della prima domenica di Quaresima, compare anche in due brani assegnati anticamente in modo esclusivo a questa quarta domenica.
Il primo di essi è il tractus “Qui confidunt”, costruito precisamente sulla melodia-tipo dei cantici pasquali.
Il secondo contesto che vede la presenza della stessa formula è l’incipit dell’antifona “Ierusalem quae aedificatur”, destinata in origine a communio di questa messa festiva.
L’ideale ponte fra la prima domenica e la Pasqua, costruito su questo tassello formulare, viene dotato di un pilastro centrale proprio in questa quarta domenica. L’invito a rallegrarsi, che l’introito traduce nel modo che si è detto, trova sostanza espressiva in questo richiamo pasquale che risuona più volte nella stessa celebrazione quaresimale.
Questa coerenza risulta un po’ adombrata nell’attuale ordinamento liturgico a ciclo triennale. Nell’anno A, infatti, è prevista la sostituzione dell’originale communio con l’antifona “Lutum fecit”. La lettura evangelica giovannea dell’episodio della guarigione del cieco nato – prevista per questa domenica – ha motivato l’utilizzo del suddetto communio, che i codici gregoriani destinavano alla feria IV della quarta settimana di Quaresima, pochi giorni più avanti.
Il testo di questa breve antifona si compone sostanzialmente di due frasi, di fattura molto diversa fra loro, che sintetizzano l’episodio miracoloso. Diversamente dagli altri communio quaresimali associati a episodi evangelici (quelli della Samaritana, di Lazzaro, dell'adultera), in questo caso non è Cristo a parlare, ma è il cieco nato che racconta la sua guarigione.
La prima frase, in estrema semplicità stilistica e senza alcuna enfatizzazione, espone oggettivamente i fatti. Non vi è ancora nulla di straordinario: Gesù ha fatto del fango con la saliva e lo ha spalmato sugli occhi malati. L’unica punta espressiva è ravvisabile nella sottolineatura dell’aggettivo conclusivo “meos”, i “miei” occhi: la sillaba tonica, in questo caso, è formata da un neuma discendente di tre note (climacus) che, nell’ambito di questa prima frase formata da sillabe con una o due note, costituisce il punto di massima densità sonora. Oltretutto, la prima di queste tre note – come si evince dalle notazioni in campo aperto che contornano la notazione quadrata – è l’unica dotata di valore allargato in tutta la prima frase. In ogni caso, l’andamento ritmico complessivo fino a questa prima cadenza è assolutamente ordinario e le naturali accentuazioni testuali sono assecondate dalla regolare elevazione melodica in corrispondenza della sillaba tonica di ciascuna parola.
Se la prima frase racconta il fatto, la seconda frase proclama l’evento. Non cambia lo stile musicale, mantenuto in rigorosa semplicità, ma cambia radicalmente il criterio di composizione testuale.
All’iniziale andamento ordinario del racconto, viene repentinamente contrapposta la scarna centonizzazione di quattro verbi consecutivi, accomunati dalla reiterazione della congiunzione “et”, utilizzata come artificio retorico di grande forza persuasiva:“et abii et lavi et vidi et credidi Deo”; e sono andato e mi sono lavato e ci ho visto e ho creduto in Dio.
La potente ed efficace sintesi sul piano testuale trova conferma e ulteriore precisazione di senso nel fraseggio musicale suggerito dalle fonti manoscritte in campo aperto. Gli antichi neumi rendono innanzitutto evidente il crescendo espressivo che coinvolge i primi tre verbi: le rispettive sillabe di accento sono dotate progressivamente di suoni a valore ampio, fino all’attestazione del miracolo (“et vidi”), tradotta ritmicamente con la doppia sottolineatura dei due suoni discendenti sulla sillaba di accento (clivis a valori larghi con ulteriore aggiunta sangallese della “t” di “tenete”, lettera che invita a “trattenere” la corrispondente sillaba a causa della sua importanza).

Ma la vera sorpresa si realizza proprio a partire da questo contesto, ovvero da questa apparente cadenza che, in modo solenne, conduce la melodia al re grave. Tale procedimento, pur segnalando una meta accentuativa di grande rilievo, non configura affatto una conclusione definitiva, perché l’energica ripresa sull’ultimo “et”, proietta il fraseggio di questo ennesimo “climax” della monodia gregoriana verso il vero punto culminante: “et credidi Deo”, e ho creduto in Dio.
I neumi indicano con chiarezza – anche attraverso l’intenzionale assenza della liquescenza sull’ultimo “et” – la proclamazione urgente e perentoria di questo inciso finale: è l’atto di fede che chiude l’antifona e che le conferisce pieno significato.
È così, in effetti, anche dal punto di vista della complessiva costruzione modale. Il brano è sostenuto da un procedimento melodico in “tritus plagale” (sesto modo); ed è proprio l’ultimo decisivo inciso che, dopo l’apparente cadenza al grave, riporta il brano alla sua vera modalità di appartenenza. Una modalità che trova ampio spazio segnatamente nel tempo pasquale e che, in questo contesto quaresimale, racconta un segno miracoloso che si fa itinerario di fede e che, raccontato in quel modo, risuona come anticipo e promessa di un pieno compimento futuro.