Terza Domenica d'Avvento (B)

GUIDA ALL'ASCOLTO
di Fulvio Rampi

La III domenica di Avvento è detta, dall’incipit dell’introito, “Dominica Gaudete” e presenta un carattere diverso dalle altre domeniche. Al pari della IV domenica di Quaresima – detta “Dominica Laetare” dall’incipit dell’introito “Laetare Ierusalem” – essa si distingue per il carattere festoso, sorprendente se rapportato al contesto penitenziale di questo tempo liturgico. L’eccezionalità della festa è anche nei segni della liturgia, a cominciare dal colore rosaceo (e non viola, il colore dell’Avvento e della Quaresima) dei paramenti del celebrante.

Il testo dell’introito è la versione fedele e quasi integrale di tre versetti paolini tratti dal 4° capitolo della lettera ai Filippesi, che la liturgia fa risuonare all’apertura della celebrazione. Quel testo di Paolo, spiegato e celebrato, diviene segno della festa, si fa liturgia di quel preciso momento (introito) e di quel preciso tempo (III domenica di Avvento). Come far risuonare questo testo? Proviamo per un momento a immaginare di doverlo proclamare dall’ambone, come fa di solito la guida dell’assemblea nelle nostre liturgie, magari leggendolo dal foglietto della domenica. Possiamo decidere di “leggere” quel testo, semplicemente, senza alcuna sottolineatura o alcun rilievo – come normalmente avviene quando l’assemblea recita una formula,  una preghiera, o comunque un testo di sua competenza – oppure possiamo decidere di dirlo per “sottenderne un significato”: in tal modo prendiamo coscienza del fatto che dire quel testo può già costituirne una forma esegetica e ci rendiamo conto, nello stesso tempo, della libertà che ci assumiamo di poter orientare, attraverso il nostro modo di leggere, la comprensione dell’intera assemblea. Il canto gregoriano ci mostra con chiarezza e in maniera efficace come la Chiesa non abbia concesso alcuna “delega” e abbia voluto invece “dire la sua” su quel testo, facendo sì che diventasse “proprio” non esclusivamente in virtù di una sua materialità o di una sua pur essenziale derivazione dalla Sacra Scrittura, ma principalmente in virtù di un suo coinvolgimento in una precisa operazione stilistico-formale.

Vi è pure una seconda possibilità di far risuonare quel testo, a noi tutti nota. “Recitiamo assieme il testo dell’antifona di ingresso che troviamo sul foglietto”: con queste o simili parole il celebrante o la guida si rivolgono talora all’assemblea dei fedeli. Recitando con l’assemblea quelle parole in neretto, penso spesso  – indipendentemente dal latino o dall’italiano – che è come se venissero cancellati i neumi da un codice notato. Quegli stessi neumi che troviamo nel Graduale Triplex sopra e sotto la linea melodica segnalata dalla notazione quadrata; quei neumi, cioè, che testimoniano la freschezza della prima trasmissione scritta dello sterminato repertorio gregoriano dopo secoli di tradizione orale. Segni che, senza bisogno di rigo musicale perché intrisi di memoria sonora, consegnano anche a noi un’esegesi “covata” per secoli e costantemente nutrita dal pensiero e dall’amore per la Parola dei padri della Chiesa. Segni, inoltre, che il lungo percorso degli studi semiologici, tutt’ora vivo e aperto al futuro, ha indagato dapprima sul puro versante ritmico-musicale, finendo poi per scoprirvi un’infinita quanto sorprendente ricchezza simbolica. Leggendo tutti insieme, all’inizio della Messa, il testo di questo introito, verrebbe certamente eliminata una “distanza” fra schola e assemblea. Ma cosa si perde in realtà? Si perde precisamente il “senso” che la Chiesa ha inteso da sempre assegnare a quel testo; un senso che la stessa Chiesa, sul piano sonoro, ha dichiarato “suo” solo attraverso l’operazione compiuta dal canto gregoriano. Dal foglietto della domenica proviamo dunque a passare al Graduale Triplex, per vedere che “direzione di significato” riusciamo a scoprire in quel testo.

Il fraseggio indicato dai neumi è chiaro: l’inciso è costruito con finissima arte retorica, con grafie semiornate, su un gioco di continui rimandi verso il punto culminante posto alla sua conclusione. Questo movimento ascendente rivela l’utilizzo di una figura retorica denominata “climax”, che consiste in una sequenza di parole che, attraverso il loro significato o con i loro valori fonico ritmici, aumentano l’intensità della frase indirizzandola verso un punto culminante. Il disegno è evidente fin dall’esordio: il valore allargato con cui si presenta il dittongo pretonico iniziale “Gau(dete)” impedisce il formarsi di un contesto proclitico, ovvero evita la sottolineatura del primo accento. La sillaba finale dello stesso verbo proietta il fraseggio, con l’uso di un neuma ascendente a tre note ai successivi elementi testuali. Analoga sorte è riservata a “Domino”, interessato da una modesta sottolineatura dell’accento e, soprattutto, dotato di una figura neumatica assolutamente speciale sulla sillaba finale. Si tratta, tecnicamente, di un “torculus di articolazione verbale”, un neuma di tre note a valori larghi che ha catturato l’attenzione degli studiosi, che gli hanno riconosciuto una straordinaria natura di artificio retorico: più precisamente, la sua presenza segnala un momento espressivo di particolare intensità; l’accumulo di tensione generato dal suo allargamento chiude in modo ritmicamente significativo un’entità verbale ma, ciò che più conta, introduce con grande forza il termine successivo, additandolo a meta accentuativa dell’intero contesto. Tale gesto retorico, così esplicito, spalanca le porte all’avverbio conclusivo “semper”, ponendolo al culmine – lo è anche sotto l’aspetto melodico – di un crescendo espressivo. Come dire, insomma, che la qualità saliente dell’imperativo apostolico di Paolo in questa domenica “speciale” non sta tanto – o solamente – nella necessità di rallegrarsi (Gaudete) o, seppure in modo più profondo, di rallegrarsi nel Signore (in Domino), ma sta nella necessità di mantenere “sempre” (“semper”) tale atteggiamento.

Volendo dare uno sguardo d’assieme alla prosecuzione del brano, notiamo che con la successiva proclamazione “Dominus prope est” (“il Signore è vicino”), torna a realizzarsi la costruzione melodico-ritmica di un nuovo “climax”, che punta al vero centro espressivo di questo introito, ossia quel solenne “nihil” (“nulla”) che, dall’alto della sua culminanza melodica, nutrita da un deciso allargamento di due note unisoniche, fa sintesi del messaggio che in questo contesto liturgico “speciale” si vuole trasmettere.. Il “semper” della prima frase, colonna portante della prima parte del brano, è integrato e addirittura superato da questo ulteriore pilastro posto non solo al centro, ma al cuore espressivo dell’introito: la “perfetta letizia” raccomandata da Paolo, fa sì che nulla, proprio nulla ci dovrà preoccupare.  “Semper”, “nihil”, momenti di grande forza “persuasiva”, come direbbe Agostino, di rara densità e suggestione che danno il senso della profondità dell’operazione condotta sul testo dal canto gregoriano attraverso stili, forme, strumenti retorici appropriati che abbiamo iniziato a conoscere.

Dopo aver scalato simili vette espressive, l’impianto musicale ridiscende per assestarsi su una ritrovata “normalità” ritmica e modale, attraverso la quale siamo invitati, in obbedienza al testo, ad alimentare la preghiera con serena fiducia.