Prima Domenica d'Avvento (C)

GUIDA ALL'ASCOLTO 
di Fulvio Rampi 

“Ad te levavi animam meam”: è questo l’incipit dell’introito gregoriano della prima domenica di Avvento, dunque l'incipit dell’intero Graduale Romanum, il libro liturgico che raccoglie i canti propri della messa. 

La grande “A” iniziale, prima lettera dell’alfabeto, è segno di Cristo come “Alpha” da cui ha origine e a cui costantemente converge la lunga meditazione che la Chiesa dispone, attraverso il suo canto gregoriano, lungo l’intero anno liturgico. 

Lo stesso fa l’Antifonale, in modo altrettanto non casuale, con il responsorio "Aspiciens a longe", il brano che inaugura il tempo di Avvento per il repertorio musicale dell’Ufficio Divino. 

Si potrebbe dire che il canto gregoriano si preoccupa da subito di rimarcare la valenza cristologica del suo progetto esegetico-musicale. 

Il primo motivo di interesse è dato dalla scelta dei testi che compongono il "proprium" di questa prima messa dell'anno liturgico. I versetti iniziali del salmo 24, pur con alcune significative varianti, danno corpo non solo all’introito, ma anche al graduale e all’offertorio della stessa messa. 

È questa la prova, qui del tutto evidente, di un’intenzione primaria che fonda l’antico repertorio gregoriano, ossia la capacità di far risuonare il medesimo testo in momenti liturgici diversi e, più precisamente, la ferma decisione di produrne un esito sonoro risultante da un vero e proprio percorso di "lectio divina". Come tale si presenta, in effetti, la successione dei tre citati momenti liturgico-musicali. 

All’apertura della celebrazione, il brano processionale nello stile semi-ornato tipico degli introiti sviluppa appunto l’esegesi del testo con figure neumatiche elementari, ovvero di pochi suoni per sillaba, amplificando i valori su alcune sillabe importanti – ad esempio sull’accento di “à-nimam” nel corso del primo inciso – ma sempre mantenendosi in una condotta di fraseggio complessivamente scorrevole. 

Il brano si presenta nel suo complesso come una grande invocazione. Tale carattere è riassunto e posto in speciale evidenza all’inizio del secondo inciso testuale, laddove con slancio e con una linea melodica portata all’estremità acuta dell’intero brano viene sottolineata con decisione l’invocazione “Deus meus”, che diviene cifra espressiva a sigillo dell’intera composizione. 

Ma la "lectio divina" operata dal canto gregoriano su questo testo non si esaurisce nell’introito. Essa prosegue e assurge a dimensione contemplativa soprattutto nel graduale "Universi", dopo la prima lettura. 

Lo stesso testo dell’introito – nella prospettiva della "lectio divina" – viene ripreso, selezionato e ripensato per risultare più profondamente compreso in ogni sua parte. Ciò che è quasi scivolato via attraverso uno stile semi-ornato, viene cristallizzato da uno stile che risponde ad altre esigenze liturgico-musicali. 

Nella messa, dopo la prima lettura, quando dunque tutti sono fermi, seduti e presumibilmente attenti, quando non c’è – come viceversa capita nell’introito – alcun movimento processionale, quando la liturgia esige una degna risposta alla lettura della Parola di Dio appena proclamata, ecco che viene ripreso il testo dell’introito, ma – si badi bene – non da capo, bensì estraendo solo l’ultima frase dell’antifona: "Universi qui te exspectant non confundentur, Domine". 

A questo punto il testo viene in un certo senso “ricreato” e ogni entità verbale assume nuova luce, nuovo peso, nuovo significato. Viene meditata ciascuna parola con più calma, con più tempo, senza fretta, con più consapevolezza. 

Se nell’introito, ad esempio, il termine "universi" riceve una minima accentuazione ed è parte di un complessivo movimento scorrevole, nel graduale esso viene posto in prima fila e promosso addirittura a incipit del brano. Ma soprattutto ne viene enormemente dilatata, con consumata arte retorica, la portata espressiva. L’incipit del graduale vuole meditare, vuole “perdere tempo” su quella parola che ferma lo sguardo sull’universalità dell’Avvento, annunciato con abbondanza di suono e con generosi allargamenti di valore, carichi di senso. 

Da ultimo, tornando a dare uno sguardo all’impianto melodico complessivo dell’introito, possiamo agevolmente verificarne – come del resto è indicato nell’edizione vaticana – la chiara appartenenza all’ottavo modo, il “tetrardus plagale” secondo la terminologia mutuata dall’antico sistema musicale greco. 

Esso è l’ultimo degli otto modi gregoriani, che riassumono e incorniciano le possibili e rigide strutture musicali dell’intero repertorio monodico liturgico. 

Tale ultimo modo, nella mente degli anonimi compositori e dei teorici medievali, è simbolo di perfezione, di compimento, di tempo definitivo. L'ottavo modo è sovente esplicita allusione all’ottavo giorno, inizio della nuova creazione. Non a caso i cantici e il triplice alleluia della veglia di Pasqua hanno questo stesso colore modale. 

All’inizio dell’anno liturgico, il canto gregoriano legge in filigrana l’intero mistero di Cristo e dilata la comprensione del tempo di Avvento alla memoria ben più ampia dell’“Adventus Domini”, itinerario illuminato dall’evento pasquale e che medita tanto il mistero della nascita di Gesù quanto l’attesa della sua venuta finale. 

La costruzione modale di questo primo introito è segno di tale percorso e ne intravede da subito le infinite risonanze.