Epifania del Signore (A)

GUIDA ALL'ASCOLTO
di Fulvio Rampi

L’attuale Messale in italiano traduce così l’incipit del nostro introito: "E’ venuto il Signore nostro Re…", omettendo la traduzione di quell’iniziale "Ecce" (Ecco) che, in realtà, è il presupposto essenziale per la comprensione di quel testo. Presupposto perché il suo utilizzo copioso lungo tutto il tempo di Avvento – tanto nel repertorio della messa, quanto soprattutto nelle numerose antifone dell’ufficio divino – è chiaramente contrassegnato da una valenza profetica. Nella mente dell’antico cantore, quest’ultimo "Ecce" si fa risposta definitiva a tutti gli "Ecce" risuonati durante il lungo tempo di attesa. La formula melodico-ritmica, quasi "scolpita" dal gregoriano, è semplice ed essenziale: le quattro note ascendenti sulla prima sillaba di accento che piegano sul neuma monosonico posto sulla sillaba finale, per chi ha un po’ di "memoria" sono allusione, risposta, compimento di un itinerario che qui trova la sua "manifestazione". Tutto ciò che verrà detto in questa antifona, si fonda su questo "Ecce" di apertura.
La centonizzazione e l’elaborazione testuale di frammenti veterotestamentari dispongono un testo liturgico che narra la manifestazione regale di Cristo con pochi termini essenziali e di grande forza. Poche parole per "spiegare" la vera festa di Cristo Re con gesti retorici chiari e ben delineati, in stile semiornato, ossia con figure neumatiche elementari. Nella prima grande frase è evidente come l’elemento testuale risulti arricchito e adornato da precise figure retoriche: la "paronomasia", ovvero l’accostamento di parole dal suono simile ("dominator" e "Dominus"), ma dal significato diverso per sfumature di senso; l’allitterazione della "d" nella prima parte della frase e l’iterazione insistita della congiunzione "et" in funzione espressiva, nella seconda parte. Su questa struttura testuale, già di per sé stessa così significativa, interviene la scrittura neumatica per ordinare la declamazione, sottolineando in particolare due momenti salienti: "dominator" e "potestas", termini che si richiamano nel significato e nella costruzione ritmica degli elementi sillabici e che riassumono e concentrano la densità e il colore di questo solenne contesto liturgico: la loro "spiegazione" è data attraverso un procedimento retorico assai frequente, che consiste nell’enfatizzazione della sillaba pretonica (la sillaba che precede l’accento) attraverso l’utilizzo di due note ripercosse a valore largo. Ciascuna delle due parole risulta così non solo evidenziata, ma interamente dilatata e promossa a pilastro espressivo della rispettiva frase e del brano nel suo complesso.  
Possiamo notare che la paronomasia "dominator Dominus", così importante dal punto di vista retorico-ritmico, non viene resa da un punto di vista melodico in maniera particolarmente esuberante: non troviamo alcun melisma, né alcuna fioritura; si assiste invece al restringimento dell’ambito melodico fino a farlo coincidere praticamente con la sola corda di recita, in modo da creare il luogo ideale per poter gustare il testo in tutto il suo sapore. 
In merito alla seconda parte del brano ("et regnum…"), caratterizzata, come detto, dall’iterazione della congiunzione "et" che sottolinea e individua tre diverse qualificazioni della regalità di Cristo, osserviamo innanzitutto che il primo "et" è interessato ritmicamente da un allargamento, a sua volta provocato dal cosiddetto fenomeno della "liquescenza": il che significa che non si tratta di una semplice congiunzione, ma di un elemento essenziale per  preparare ciò che si sta per dire, per rallentare cioè il ritmo del fraseggio così da evitare che l’attenzione si concentri  solo sul sostantivo "regnum": pertanto, ciò che viene suggerito è che la meditazione interessa ogni singola parola dell’intera espressione. 
Il secondo "et" , a differenza del precedente, limita il proprio peso a semplice congiunzione con l’elemento successivo, il solenne "potestas", dove ritroviamo, come si è già detto, una ripercussione di due note a valore largo sulla sillaba pretonica; l’esegesi è chiara: il Signore "dominator" esercita la sua sovranità nel "regno" attraverso una "potestas". In un certo senso, si può dire che proprio questo termine (potestas) rappresenti il momento centrale del brano, in quanto oltre a fare riferimento e ad evocare il termine iniziale (dominator) –  trattato ritmicamente in maniera analoga –  arriva a superarlo e a qualificarlo perché la melodia tocca qui il suo apice. 
L’ultimo "et" assume un’ulteriore e diversa connotazione rispetto ai primi due: la congiunzione viene utilizzata, con sottile e consumata arte retorica, per portare nuovamente la proclamazione della regalità di Cristo al suo culmine melodico e per indirizzare la meditazione verso il suo vertice, la parola "imperium", sulla cui sillaba pretonica il notatore sangallese interviene con un grande allargamento ritmico liquescente dal significato inequivocabile. Ma proprio quest’ultima parola provoca una nuova quanto evidente risonanza, se considerata in riferimento – come si ricorderà –  all’introito "Puer natus" del giorno di Natale: l’esegesi suggerita dalla notazione all’interno di un differente contesto liturgico consente infatti di constatare come la stessa parola "imperium" venga trattata a Natale in modo completamente diverso, sempre come culmine melodico, ma, come si è visto in quel caso, all’interno di un contesto molto fluido, proclitico, che suggerisce una spiegazione diversa e in qualche modo complementare a quella fornita nell’introito dell’Epifania, quando il dominio del Signore risplende in tutta la sua potenza e regalità dinanzi al mondo intero. La notazione sangallese risulta in questo senso perfettamente aderente a queste due situazioni differenti e complementari: quando deve sottolineare, a Natale, l’esaltazione di Gesù conseguente alla sua "kenosis", lo fa tramite l’individuazione di un contesto proclitico significativamente indirizzato verso la vetta melodica del brano; viceversa, nell’introito dell’Epifania, la stessa antica notazione ritmica segnala la necessità di valorizzare adeguatamente questo culmine sonoro per dilatare la contemplazione e gustare in profondità tutta la ricchezza e le implicazioni della regalità di Cristo. 
Ma questo gioco di specchi potrebbe andare avanti all’infinito perché ogni brano è una fonte inesauribile di rimandi, esige la consuetudine alla concordanza, è una finestra aperta sull’immenso panorama del canto gregoriano. Ciò che a noi appare sempre più come un complicato e affascinante gioco di cui fatichiamo a capire le regole, agli antichi cantori, forse, non faceva che ricordare la necessaria assiduità, la familiarità assoluta con la Parola, una familiarità che dalla materialità dell’esercizio mnemonico assurge a conoscenza, a preghiera della Chiesa e a esperienza di vita.